Oltre il residuo della partitocrazia, oltre la logica imperante della fazione: proposte per una nuova prassi politica/ Beyond the residue of partycracy, Beyond the prevailing logic of faction: proposals for a new political practice


Nel 1949 Giuseppe Maranini contribuì notevolmente alla fortuna del termine partitocrazia nel dibattito internazionale: infatti, in occasione del discorso di apertura del nuovo anno accademico dell'Università di Firenze ("Governo parlamentare e partitocrazia)", il giurista denuncia la tirannide partitocratica causata dal nuovo ruolo del Parlamento, posto dalla Costituzione da poco entrata in vigore in una posizione centralissima tra i poteri statali, causativa di una forte instabilità politica (aggravata anche dal sistema elettorale proporzionale). 

In realtà, lo stesso Maranini si rifà a una tradizione di avversità nei confronti dell'accentramento partitocratico ben anteriore all'epoca dei partiti di massa che hanno caratterizzato la storia della cosiddetta Prima Repubblica: già nel 1881 Marco Minghetti si lamentava dell'eccessiva ingerenza dei partiti politici nella Pubblica Amministrazione: 

l’azione dei partiti non solo dovrebbe essere assolutamente esclusa dal santuario della giustizia, ma eziandio dai dicasteri amministrativi.

 e ancora:

la ragione e l’esperienza dimostrano che il governo parlamentare é un governo di partito e come tale ha la tendenza a favorire gli amici e ad opprimere gli avversari, e quindi s'ingerisce indebitamente nella giustizia e nell’amministrazione. 

La logica partitica, quindi, secondo questa visione è in sé e per sé quindi una logica di fazione, con tutte le sue conseguenze nefaste riguardo l'imparzialità e la buona gestione dello Stato, con la sua tendenza a ridurre tutta l'azione politico-amministrativa a mero discorso di favore, strategie ostative, abuso di potere ecc.

Quello che però si augurava Maranini non era un affrancamento totale dai partiti e dalla loro funzione, a una richiesta di una loro maggiore regolamentazione, da sempre, fin dall'Unità, abbastanza carente.

La partitocrazia italiana, ad ogni modo, ha avuto una sua parabola storica che si è conclusa, nella sua forma più pura e compiuta, con la crisi della Prima Repubblica: dalla fine degli anni '70 fino ai primi anni '90 la logica partitocratica viene meno, in un quadro politico sempre più legato alla presenza dei leader carismatici, allo scadimento della comunicazione politica a quasi mero marketing politico e al frazionamento estremo dell'associazionismo politico. 

Nonostante tutto ciò, ancora oggi non siamo riusciti a sviluppare un senso della politica più equilibrato: tutto sembra cioè veramente estremamente condizionato a una presa di posizione ideologica o comunque a un'adesione a quello che sembra essere il "discorso" di un dato partito o movimento.

Qualunque cittadino italiano prima di affrontare un tema legato alla collettività oscilla tra la totale assenza di cognizione o la totale soggettività/arbitrarietà o l'adesione indefessa ai principi che sembrano trasparire dal discorso del leader politico sui mass media. Manca quindi una capacità di concepire un pensare e un agire politico basato su principi preliminari: la politica è solo fazione, una posizione simile ironicamente alla filosofia, dove sembra quasi impossibile stabilire principi universali, condivisibili all'unanimità.

Ma mentre la filosofia è LA disciplina par excellence, la politica è un ambito estremamente pragmatico: è la nostra azione collettiva per...elezione, la nostra espressione di volontà personale che cerca di incontrare altre volontà. Per fare cosa?

Sembrerebbe quasi inevitabile dover per forza di cose associarsi e creare una sorta di pensiero unico (termine di cui si abusa tantissimo oggi). 

Che ci sia bisogno necessariamente di trovare dei commilitoni politici non è da mettere in dubbio, per poter agire. Quello che conta ricordare però, è che questa azione non dovrebbe mai addossare ogni sua aspirazione all'ottica faziosa: bisogna quindi iniziare a concepire la politica in modo un po' diverso, ponendosi al di fuori dei poli attrattori di stampo ideologico e quindi partitici, una buona parte della prassi politica.

Le questioni più gravose e urgenti devono essere affrontate senza le falsificazioni ideologiche: per esempio, l'urgenza del declino socio-economico italiano necessita di una fuga dagli accentramenti partitici, perché la logica faziosa non può cogliere più in modo integrale ed efficace la reale natura del problema e non può più garantire reali soluzioni che possano creare un nuovo equilibrio socio-economico. Anche la politica internazionale è diventato un carnevale dossografico ridicolissimo: viene realmente a mancare la capacità di cogliere dei nessi logici elementari come causa ed effetto addirittura.

Una politica almeno in buona parte decentrata dai poli attrattori è quindi una politica finalmente pragmatica, ed è una politica a più dimensioni, più profonda, che sa creare armonia cognitiva nel comprendere la realtà collettiva e quindi, potenzialmente, una prassi finalmente condivisibile al di là delle fazioni, per affrontare le questioni in modo più efficace, senza paura di venire meno ai vincoli ideologici.

Questo non vuol dire comunque rinunciare ai partiti e alle fazioni, ma fare in modo che le diversità di visione siano anzi più sincere e sfuggano dalla mera strategia politica mirante a colpire la parte avversa come prima occupazione: i partiti possono realmente autodeterminarsi in tutto e per tutto in modo più funzionale, responsabilizzandosi di più nei confronti di un discorso politico in cui si partecipa insieme ad altri e non contro gli altri. Si crea così l'occasione per una una maggiore collaborazione e cooperazione: lo scenario politico non sarebbe quindi più popolato da armate pronte a combattere fino all'ultimo sangue, una contro l'altra, ma da collegi "specializzati", da insiemi di persone diversificate per missione, sensibilità, priorità ma comunque in una condizione armonica dove le necessità e i valori hanno una dimensione più unitaria e conciliante, senza però i compromessi tipici di una politica pronta a vendersi al miglior offerente per un paio di poltrone in più. Sì, perché la prassi attuale è una prassi che in realtà falsifica, paradossalmente, le differenze ideologiche e le azioni concrete!

Una prassi che potrebbe essere simile a quella del Terzo settore: le associazioni e le organizzazioni sono tutte diverse nella missione e in parte nella prassi, ma in realtà condividono un nucleo duro di visione e valori che conduce non alla competizione ostativa ma alla com-petizione intesa in senso originario di "convergere verso lo stesso punto".

Come operare concretamente in questo senso? Deve cambiare la cultura politica italiana in modo radicale, ovviamente. Fin dalle scuole superiori siamo abituati alla "politica da stadio", dove i partiti sono come squadre di calcio per cui tifare, e dove le squadre avversarie sono oggetto di scherno, avversione automatica. Una cultura educativa e didattica che agevolino una visione di cooperazione, collaborazione e di accettazione del diverso all'interno di un quadro esperienziale e collettivo unitario può, nel lungo periodo, divenire la base per poi, in sedi formative adeguate e più specializzate, introdurre un discorso di prassi politica innovativo dove la convergenza prende il posto della competitività e dove le diversità di idee, visioni, volontà, rappresentanza ecc. possano divenire non un ostacolo ma una ricchezza e un'opportunità di "dividersi il lavoro", un lavoro politico per l'appunto inteso come terreno comune, con principi condivisi che rappresentino un limite determinato e deciso nei confronti dell'inevitabile vespaio di opinioni. Per iniziare ad attuare questo però occorrerebbe partire da più lontano, da una scuola che educhi, come già detto in altra sede, all'appartenenza collettiva come necessità non ineluttabile ma espressa con volontà ed autodeterminazione, facendo nascere quella consapevolezza di diritti e doveri, non più vissuti i primi come pretese e i secondi come schiavitù, e facendo anche nascere consapevolezza di tutto ciò che rappresenta gli elementi costitutivi e necessari del vivere in comune, le funzioni delle istituzioni, il senso della democrazia e dello Stato, cosa vuol dire partecipare in senso civico e politico, i bisogni di tutti e i bisogni specifici di gruppi umani, categorie, parti ecc.

Un popolo che capisce le questioni fondamentali del proprio essere e del proprio agire, quindi, è un popolo più pronto a comprendere che la politica non solo può ma deve divenire un terreno comune di incontro, dove non è più necessario sfoggiare una tessera di partito per sentirsi parte del dibattito, dove le soluzioni ai problemi si trovano senza andare a vedere se corrisponde alla carta dei valori del proprio partito o movimento, senza che il dibattito politico diventi una misera battaglia a colpi bassi, dove la comunicazione politica non è più marketing o propaganda da due soldi ma vera argomentazione della propria posizione e vera espressione di una volontà di risoluzione dei conflitti e non di strumentalizzazione e disonestà intellettuale.


In 1949 Giuseppe Maranini contributed significantly to the fortune of the term partitocracy in the international debate: in fact, on the occasion of the opening speech of the new academic year of the University of Florence ("Parliamentary government and partitocracy)", the jurist denounced the partitocracy tyranny caused by the new role of Parliament, placed by the Constitution that had recently come into force in a very central position among the state powers, causing a strong political instability (also aggravated by the proportional electoral system).

Actually, Maranini himself refers to a tradition of adversity towards the centralisation of partitocracy well before the era of the mass parties that characterised the history of the so-called First Republic: already in 1881, Marco Minghetti complained about the excessive interference of political parties in the Public Administration:

the action of the parties should not only be absolutely excluded from the sanctuary of justice, but also from the administrative departments.

And again:

reason and experience demonstrate that parliamentary government is a party government and as such has the tendency to favor friends and oppress adversaries, and therefore interferes unduly in justice and administration.

According to this vision, party logic is in and of itself a faction logic, with all its harmful consequences regarding impartiality and good management of the State, with its tendency to reduce all political-administrative action to a mere discourse of favour, obstructive strategies, abuse of power, etc.

What Maranini hoped for, however, was not a total emancipation from parties and their function, but a request for their greater regulation, which has always, since the Unification, been quite lacking.

Italian partycracy, in any case, has had its own historical parable that ended, in its purest and most complete form, with the crisis of the First Republic: from the end of the '70s to the early '90s, partycratic logic fails, in a political framework increasingly tied to the presence of charismatic leaders, from the decline of political communication to almost mere political marketing and the extreme fragmentation of political associations.

Despite all this, even today, we have not managed to develop a more balanced sense of politics. Everything seems to be extremely conditioned by an ideological position or, in any case, by an adherence to what seems to be the "discourse" of a given party or movement.

Before addressing a topic related to the community, any Italian citizen oscillates between the total absence of knowledge, total subjectivity/arbitrariness, or the indefatigable adherence to the principles that seem to shine through from the political leader's speech in the mass media. What is therefore lacking is the ability to conceive of political thinking and action based on preliminary principles: politics is just a faction, a position ironically similar to philosophy, where it seems almost impossible to establish universal principles that can be shared unanimously.

But while philosophy is THE discipline par excellence, politics is an extremely pragmatic field: it is our collective action by... election, our expression of personal will that seeks to meet other wills. To do what?

It seems almost inevitable that we must necessarily associate and create a single thought (a term that is so overused today).

That there is a need to necessarily find political comrades in arms is not to be doubted, to act. What is important to remember, however, is that this action should never attribute all its aspirations to a partisan perspective: we must therefore begin to conceive politics in a slightly different way, placing ourselves outside the ideological and therefore party-based poles of attraction, a good part of political practice.

The most serious and urgent issues must be addressed without ideological falsifications: for example, the urgency of the Italian socio-economic decline requires an escape from party centralization, because the partisan logic can no longer fully and effectively grasp the real nature of the problem and can no longer guarantee real solutions that can create a new socio-economic balance. Even international politics has become a ridiculous doxographic carnival: the ability to grasp elementary logical connections, such as cause and effect, is actually lacking.

A politics that is at least largely decentralized is therefore a politics that is finally pragmatic, and it is a politics with more dimensions, deeper, that can create cognitive harmony in understanding collective reality and therefore, potentially, a practice that can finally be shared beyond factions, to address issues more effectively, without fear of breaking ideological constraints.

This does not mean, however, giving up parties and factions, but ensuring that the differences in vision are more sincere and escape from the mere political strategy aimed at hitting the opposing party as the first occupation: the parties can truly self-determine in every way more functionally, taking on more responsibility towards a political discourse in which one participates together with others and not against others. This creates the opportunity for greater collaboration and cooperation: the political scenario would therefore no longer be populated by armies ready to fight to the death, one against the other, but by "specialized" colleges, by groups of people diversified by mission, sensitivity, priority but still in a harmonious condition where needs and values ​​​​have a more unitary and conciliatory dimension, without however the typical compromises of a policy ready to sell itself to the highest bidder for a couple of more seats. Yes, because the current practice is a practice that, in reality, falsifies, paradoxically, ideological differences and concrete actions!

This practice could be similar to that of the Italian Third Sector: associations and organizations are all different in mission and partly in practice, but in reality, they share a hard core of vision and values that leads not to obstructive competition but to competition understood in the original sense of "converging towards the same point."

How to operate concretely in this sense? The Italian political culture must change radically, obviously. Since high school, we have been accustomed to "stadium politics", where parties are like football teams to cheer for, and opposing teams are the object of ridicule and automatic aversion. An educational and didactic culture that facilitates a vision of cooperation, collaboration and acceptance of diversity within a unitary experiential and collective framework can, in the long term, become the basis for then, in adequate and more specialized training settings, introducing an innovative discourse of political practice where convergence takes the place of competitiveness and where the diversity of ideas, visions, wills, representation etc. can become not an obstacle but a wealth and an opportunity to "divide the work", a political work intended precisely as common ground, with shared principles that represent a determined and decisive limit towards the inevitable hornet's nest of opinions. To begin to implement this, however, it would be necessary to start from further away, from a school that educates, as already said elsewhere, to collective belonging as a necessity not inevitable but expressed with will and self-determination, giving birth to that awareness of rights and duties, no longer experienced the former as claims and the latter as slavery, and also giving birth to awareness of everything that represents the constitutive and necessary elements of living together, the functions of institutions, the sense of democracy and the State, what it means to participate in a civic and political sense, the needs of all and the specific needs of human groups, categories, parties, etc.

A people that understands the fundamental issues of its being and its actions, therefore, is a people more ready to understand that politics not only can but must become a common ground of encounter, where it is no longer necessary to show off a party card to feel part of the debate, where solutions to problems are found without having to go and see if it corresponds to the charter of values ​​of one's party or movement, without the political debate becoming a miserable low-blow battle, where political communication is no longer marketing or cheap propaganda but a true argument of one's position and one's will and a true expression of a desire to resolve conflicts and not of instrumentalization and intellectual dishonesty.

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